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Ci si imbarca, di sabato mattina, alla volta di Roscigno. Sandro Ciotti da San Siro avrebbe potuto raccontare di una “giornata calda, con ventilazione inapprezzabile”, ma i tre peones, con l’aggiunta di un quarto anche lui dilettante allo sbaraglio dell’arte fotografica e del cazzeggio, si inoltreranno invece di una giornata da tregenda. Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte eppure bisogna andar, di pioggia in pioggia e al minimo di visibilità, su queste strade interne che ancora una volta porteranno all’elegia della lentezza di provincia. Dall’A3, uscendo ad Atena Lucana, si prosegue per San Rufo, abbarbicati tra spettacolari versanti pietrosi e reti paramassi, e poi al bivio per Corleto Monforte si gira invece a sinistra verso Roscigno, dove le uniche compagne di viaggio saranno le frane presenti sulla strada e qualche pastore maremmano che sembra un cavallo, solo un po' più piccolo.

Roscigno “pare Baghdad” (qualsiasi luogo su cui imperversano rumori di fuochi d’artificio, tuoni, bombe carta o spari natalizi, qui, tra gli under 30 del nostro pezzo di sacro sud, pare Baghdad), lo butta col secchio, sembra un monsone bengalese. Le mezze stagioni non esistono più: o solleone o rovesci, e a noi, ‘sto giro, son toccati i secondi. La nostra auto –da commendatore, che se la vedi pare che i quattro si dirigano al matrimonio di un banchiere sebbene indossino scarpe da trekking, mica un pandino- procede a tentoni, sperando solo che il fondo sdrucciolevole non la faccia precipitare. Il paese imbarca acqua da ogni lato, si intravedono cascatine tra i dislivelli, fiumi d’acqua. L’acqua non è drenata, l’acqua ci sderena, fa plof pfof nelle scarpe, fa buscare il raffreddore: percia, sostanzialmente. Siamo ebbri d’acqua, anche perché la sera prima non avevamo sbevazzato.

La piazza principale è rettangolare, e probabilmente sproporzionata rispetto al numero di anime. A meno che, ovviamente, essa non debba svolgere la funzione di palco per la sagra di paese-parcheggio-mercato settimanale-sito per la folla plaudente il santo patrono. Da un lato c'è la banca e, dall’altro, in serie, il bar, la cartolibreria-salumeria-copisteria-edicola-factotum (almeno, tra le secchiate d'acqua sembrava qualcosa del genere), la posta a sportello unico. Il bar è uno stanzone, malinconico nel suo pavimento anni 60, nel suo arredamento kitsch d’annata. Lo osservi, e a prescindere ti viene il magone: “IL” bar, insomma, quello che tutti immaginate, con annesso proprietario over 60, che ha tentato di spiegarci qualcosa in dialetto, ma con scarsi risultati. Il bancone è lunghissimo, manco si servissero boccali di birra da far scivolare da un capo all’altro. Peccato che la grandezza del bar non corrisponda alla scelta dei prodotti: in effetti, tira un'aria di rassegnazione tra quelle quattro tazze, le stecche di cioccolato e le merendine, unici prodotti abbandonati come il carciofino sottolio nel frigo vuoto del giovedì sera di  un precario in nero. Il cesso è nella veranda, ma imbarca acqua dalla finestra. Dalla veranda, almeno narra la leggenda, si dovrebbe osservare un orizzonte più ampio di quello che riusciamo a vedere. In realtà non si vede una beata minchia, solo punte di alberi tra le nuvole, e montagne sullo sfondo.

La lentezza di provincia prende forma nel bar nella presenza di quattro avventori, rigorosamente ultrasessantenni, che discutono in termini dialettali di pay-tv. E la lentezza diventa paradosso quando un classico cappuccino+cornetto diventa caffèlatte+merendina: tu ti aspetti il beccuccio che fa la schiuma e quello rovescia un po' di latte scaldato in tazza con aggiunta di caffè. E' il bello del perdersi nell’entroterra cilentano, dove tu arrivi con le tue certezze da colonizzatore, manco provenissi da New York e fossi diretto a fare il volontario in Kenya, metti in mostra il tuo andazzo piacione e, invece, devi giustamente accontentarti di ciò che passa il convento di un piccolo paese, di poche anime, del nostro sud, vivo o morto ancora non si sa ma forse più morto, di sabato mattina, sotto il diluvio, in un bar che ha il cesso fuori la veranda. Nel frattempo, cerchiamo di prelevare alla posta nonostante gli sbalzi di corrente; l’operatore si lamenta dell’essere cittadino di serie b, quello per cui le strade devono essere franate, la posta deve funzionare a singhiozzo, i servizi te li devi andare a cercare. E ha ragione, ha maledettamente ragione; se queste realtà esistono dovrà esserci un motivo, sarà che qualcuno ancora preferisce queste pietraie alla città, sarà che lo scorrere lento del tempo compensa gli autobus urbani scassati, le corse degli scooter ai semafori verdi, le piazze affollate serali. Semplicemente, si chiama scelta, e libertà di scelta -e quindi ulteriormente di soffrire e di morire, comunque già morti dentro- in modi differenti.

Ci si rimette in auto; a un chilometro circa da ‘questa’ Roscigno, ce n’è un’altra. E’ Roscigno Vecchia, il paese ormai abbandonato un po’ più a valle. E’ una piazza, niente più che una piazza alberata ed enorme, intorno alla quale il vecchio agglomerato si presenta come una circonferenza di case, alcune in piedi, altre in riparazione, altre crollate, e di una chiesa. Paesaggio spettacolare: il tempo sembra essersi fermato al periodo dell’abbandono, le porte e le finestre riportano al passato dei nostri nonni, un passato intatto, un’istantanea dell’epoca. A volte Wikipedia aiuta. Anche questa volta, la storica presenza di frane sul territorio comunale (qui in dettaglio, basta digitare "Roscigno" nella search bar) ha portato all'abbandono del centro storico. Vorremmo saperne di più: dalle parole del barista emerge -pare- che negli anni '50 ci sia stato il forte esodo, con i contadini che dal vecchio paese si spostavano al nuovo, quello più in alto, grazie a delle concessioni terriere statali. Da profani, possiamo dedurre che, probabilmente, fu il risultato della Riforma Agraria degli anni '50, che tolse i grandi terreni ai latifondisti polverizzando la proprietà tra i contadini. Supposizioni, da verificar e prendere dunque con le molle. Comunque, con la pioggia da sfondo, le pupille gustative della vista assaporano un gusto particolarissimo. Immaginavamo le galline razzolare, il mercato contadino, le chiacchiere fuori i portoni. Nella galleria di foto qui sotto potete ammirare qualche scorcio che ci è piaciuto, mentre qui potete trovare foto storiche di vita quotidiana, provenienti dal museo locale, ovviamente chiuso nel bombardamento di acqua prefestivo. 

La nostra visita è impreziosita dalla presenza delll’ultimo abitante di Roscigno vecchia, Giuseppe Spagnuolo detto Libero, barba bianca e pipa, abiti trasandati, passo ciondolante. Su alcuni siti web lo definivano come l’ultimo abitante del paese fantasma, ma lo avevano vestito in giacca e cravatta, mentre a noi a prima vista sembrava davvero un senzatetto, con quelle buste della spesa scomparse dietro un portone di una casa in rovina. A noi invece il tizio si presenta più nature, e la sua visione con la pipa fumante sotto un arco di una centenaria casa contadina, di fianco a un pergolato di uva, beh, è uno spettacolo che ripaga ampiamente la pioggia e il caffelatte. Lo scrittore Franco Arminio, incontrandolo in una sua sortita a Roscigno (Arminio, 2008), ne ha azzeccato pienamente il paragone a qualche caratterista dei film di Sergio Leone. A noi sembra un Mario Brega, meno imponente e dal volto meno cattivo,  visto anche questo scatto trovato in retela cui bellezza si commenta da sola. Diciamo a Giuseppe di essere irpini: lui ha chiesto notizie di Patrizia, la meretrice di Montoro. Non avendo avuto il piacere di apprezzare l’ars amatoria della suddetta, non abbiamo info utili.

Siamo andati via da Roscigno vecchia, popolata da un solo tizio barbuto, di cui noi abbiam saputo l'esistenza solo quel giorno ma che a quanto pare è una piccola star del web. Il cartello trash poco prima del borgo, quasi incerto nella tristezza che emana all'osservatore, definiva Roscigno vecchia la Pompei del ‘900. Ma a noi, quel giorno, tra resti di case e di umanità, sotto quella pioggia battente, pareva più Baghdad.      

Se volete:

ARMINIO F., 2008, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia, Laterza, Bari    

Foto di Sandro Montefusco

 

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