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Testo: Giuseppe Forino 

A Melito neanche sapevamo come arrivarci. Non che fosse lontanissimo da casa, eh, ma non c'era mai passato lo sfizio, per così dire, di trovarlo su una mappa, su Maps, di cercarlo sul navigatore. Eppure, nelle scorribande su e giù per l'Irpinia -ma mica da mò, da almeno dieci anni- t’è pure capitato di vedere qualche cartello, un'indicazione stradale, avrai incontrato qualcuno che te ne abbia parlato, ma la cosa è finita lì, una di quelle di cui dici "vabbuò, poi la faccio, poi ci vado" e sei arrivato a 30 anni che sei andato a Seattle ma la prima volta che hai visto gli scavi di Pompei avevi 28 anni, per dire. Per dire, appunto, che la testa è una sfoglia di cipolla, e non è detto che posti nuovi da vedere siano sempre alla portata del rito aeroportuale biglietto-check in-togli le scarpe che magari hai qualche bomba tra le calze sporche-aereo-aereoporto di arrivo-transfer-cerca un ostello. Magari sono a un tiro di schioppo da casa nostra: sai in quanti vicoli del nostro paese non siamo mai passati! 


Comunque, la macchina è riscaldata da un placido sole di inizio primavera, la strada è vuota che è sabato pomeriggio dopo pranzo e la gente o c’ha la serie b in tv, o sta dormendo; la pancia è piena e a pancia piena si ragiona meglio ma si digerisce male tra le curve. Per cui, con una certa nonchalance, il cazzeggio si può settare oggi, via navigatore, verso Melito Irpino. Hai capito, questi fanno tanto i ghost scout e poi non si muovono senza navigatore....Ma no, è che uno ha pure visto il tragitto, mò non fateci fare i radical chic in escursione con quattromila euro di abbigliamento, lentazza da sole d’ordinanza e tablet per le foto, ma in mezzo a noi ci sono comunque i gps-addicted, quelli che stanno sempre con la testa sull’apparecchio pure se conoscono esattamente la strada, come i rabdomanti in cerca di acqua o le allegorie dei cercatori di tesori, sempre con grugno chino sul terreno. Che poi 'sto Melito, a ravanare nei quattro neuroni rimasti, è pure uscito una volta al TG1, con la tristissima vicenda di un ragazzo di una casa famiglia che aveva ucciso un operatore della struttura. Ah no, ecco: era Preturo Irpino, più o meno in zona. E vabbè, questo tragico ricordo confuso è l’indicatore di una Irpinia che non va mai nei canali di informazione. Non che ce ne dolga granchè, ma almeno farsi vedere su un po’ di mainstream provoca un po’ di chiacchiericcio e curiosità. Qua per fare notizia o devi ammazzare qualcuno, o deve caderti una trave in testa, oppure De Mita e qualche suo sodale devono pontificare di sviluppo, rilancio, coesione. Di belle notizie sempre troppo poche: noi miserrimi siamo andati su Repubblica Napoli, e comunque ci occupiamo di roba sbracata e vecchia, di miseria, di cose che mancano, sottratte. 

 

Chi abita nell’hinterland avellinese, in questa Bengodi di bassa lega dove scorre il miele, si mangia pappa reale e si fa tutto il giorno i beoni (faj‘o ver, frà?) (in effetti, è un po’ governata da beoni, diciamolo), immagina che il posto “altro” sia altro dal proprio sé, condannato all' "isolamento” e alla sofferenza imperitura. Poi te lo ritrovi a un quarto d'ora di macchina dall'uscita autostradale di Grottaminarda, con un verde smeraldo che, che, che…..non lo puoi descrivere, altro che verde Benetton.

Un giro rapido nel paese, rilocalizzato e ricostruito dopo il terremoto del 1962 (poche emozioni, soliti porticati tipicamente non irpini e pianificazione moderna), come Apice, di cui abbiamo già parlato qui. Un po’ di fonti ci aiutano a capire cosa è successo, dopo quel terremoto del 1962, e perchè il paese è lì, e perchè così. Le precarie condizioni geologiche del territorio e dell’insediamento dopo il sisma, insieme a una  rete idrografica poco regimentata e alla forte compromissione dei manufatti edilizi e dell’accesso al centro più antico, fecero propendere verso lo spostamento degli abitanti in un nuovo insediamento, costruito ex novo in un luogo a circa due chilometri dal vecchio. Venne scelto un luogo pianeggiante, decentrato rispetto al territorio amministrativo. Di semplice planimetria, con un numero limitatissimo di strade e una forma a poligono trapezoidale, il nuovo paese culmina nei due lati lunghi con due soste belvedere, una verso la vecchia Melito e l’altra verso la valle dell’Ufita. Come ad esempio Lioni e Conza, il nuovo centro fu organizzato secondo un impianto urbanistico importato, in cui la piazza del comune e la chiesa sono collegate tra loro da una strada delimitata da vari porticati che consentono il transito al coperto davanti ai negozi, e che dovrebbero essere luogo di passeggio e di socializzazione (De Feo, 2005). Una ricerca condotta dallo stesso Autore, nello stesso volume, indagava ancora una volta il rapporto tra memoria e ricostruzione. Le conclusioni sono quelle che ci si attendeva: per chi abitava il vecchio centro c’è ancora un moto di nostalgia, di affetto e rispetto per il vecchio insediamento, per gli ultimi resti. Per i giovani, invece, nient’altro che un posto per la scampagnata domenicale. E’ interessante, in questo senso, cosa affermava nel 1995 l’ex sindaco di Melito durante un convegno: La struttura di Melito Vecchio si articolava intorno ad alcuni punti cardine che rappresentavano il fulcro del disegno urbano e contemporaneamente costituivano i riferimenti della vita sociale. La piazza della Chiesa, la piazza del Palazzo, per citarne qualcuno, erano i luoghi deputati dalla tradizione a essere i centri di tutti i rapporti, sia interpersonali che commerciali o religiosi. La loro posizione fisica nel contesto del paese ne faceva dei riferimenti … Tutto questo nella Nuova Melito è scomparso. Il disegno del nuovo centro abitato non ha riproposto quelle caratteristiche urbane, quei riferimenti che costituivano il motivo aggregante della gente. Lo spazio si è dilatato, le zone residenziali sono ampie, spaziose le case grandi e comode, affacciate su curatissimi giardini. Sembra assurdo, ma c’è troppa distanza fra le case che porta a troppa distanza tra le persone” (De Feo, 2005, p. 374). 


 Ancora una volta un nuovo comune che non è specchio del vecchio, che incide sulla nuova vita delle persone e che da occasione di sviluppo diventa spesso rimpianto. Che sia chiaro, qui non si fa invettiva contro niente e nessuno. La politica ha fatto il suo, gli amici e gli amichetti pure, ma non ce la sbrogliamo alla Bartali (“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”). (Ehm, sì, come scritto da qualche altra parte da noi si cela anche un cycling-addicted). Progettare da zero è operazione complessa, sottende conoscenze scientifiche, questioni antropologiche e sentire sociale; è questione politica e tecnica, ingegneristica, democratica e sociale insieme. Un'insalata russa, insomma... Una riflessione sull'architettura e i metodi di costruzione è imprescindibile dal provare a capire, ad esempio, cosa prova un singolo abitante dopo che ha perso casa, parenti e familiari, e dopo che deve pure trasferirsi ripartendo da zero. Predire il futuro, provare a immaginarlo è estremamente difficile, ma non per questo non si deve provare a riflettere su come le azioni della ricostruzione nell'oggi incidano nel domani di quel luogo: un domani urbanistico, politico, sociale, emotivo. Certo, nessuno ha la ricetta magica, ma lo sforzo per comprendere questo fenomeno dal punto di vista sociale va fatto; doveroso, tanto per la conoscenza culturale quanto soprattutto per chi ha perso tutto in un attimo, o per chi ha fatto armi e bagagli e ha iniziato di nuovo, magari emigrando.. 

Cerchiamo dunque la vecchia Melito (ve la mostriamo nelle foto in basso). I resti di ciò che resta dei resti, in realtà; si trova molto poco, pochissimo, lì più a valle. Non è Apice, Senerchia o Conza: il passato non puoi provare a ripercorrerlo varcando qualche uscio, leggendo tra le piastrelle delle vecchie cucine di Senerchia, tra le architravi di legno gonfie di acqua, rose dal degrado e dai tarli e ormai impalcatura per nuova gramaglia selvatica di Romagnano, oppure tra le sedie di Tocco Caudio con la paglia sfilacciata (tra noi si nasconde anche un chair-addicted). Dei resti, come detto, c'è pochissimo. Si inizia dalla chiesa principale, nella quale è possibile entrare e fare foto e ammirare la natura che si impadronisce dell’umano. Il puzzo di muffa e la polvere ci ricordano molto la chiesa di Romagnano al Monte. Sembra che ora ti crolli in testa, sembra che basti un soffio di vento, mentre calpesti alcuni resti di soffitto ormai parte integrante del pavimento. Tutto il legno del soffitto è ormai visibile, ed è qualcosa di davvero fenomenale con il naso all’insù, sperando un piccione non decida di inaugurare il tuo naso…..E questo è quanto. Uscendo dalla chiesa, percorri un po’ di scale per arrivare a quello che è il vecchio castello, anch’esso ormai quasi riconquistato dalla natura. Basta,  questa è la vecchia Melito. Più nulla, giusto qualche resto di base di abitazione che si confonde nell’erba, poi il nulla. Alzi lo sguardo e inizi a scorgere qualche casa nuova, sorta su qualche proprietà accanto alle vecchie abitazioni ormai decrepite, ormai forse fienili, cantine di roba vecchia e che non si vede l’ora di abbattere. Con lo sguardo, continuando a destra di queste poche case isolate, la nuova Melito. Ma gli alberi e qualche piccolo pendio ce ne impediscono la vista. Ritornando dall’altro lato, attraverso la campagna, verso la nuova Melito, senza neanche bere un chinotto, breve sosta da un’anziana signora appena fuori il cancello della sua onestissima casa. Quella che ha anche un piccolo lavabo esterno, di ceramica graffiata, accompagnato da un tavolaccio  realizzato alla meglio maniera.

 

Giusto qualche domanda: il paese certamente le manca, ci dice in dialetto, rughe profonde come i  solchi nei campi fatti in una vita e i capelli raccolti in un foulard, ma la vita continua. E poi, dal frutteto di casa sua, la chiesa e il castello sono davvero vicini. Si vedono dall’alto, quasi a un palmo di mano. Avesse l’agilità di un tempo, probabilmente, si butterebbe giù dal costone per correr loro incontro. 

 

 

 Giusto per: De Feo C.M. (2005), Il nuovo insediamento e la memoria: la rifondazione di Melito Irpino, in  Mazzoleni D.Sepe M. (a cura di), Rischio sismico, paesaggio, architettura: l’Irpinia, contributi per un progetto, Centro Regionale di Competenza Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale, Napoli pp. 367-386 (scaricabile qui)    

 

foto di Sandro Montefusco

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