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Per chi non lo sapesse, Solofra è detta “Città della pelle” in quanto ospita un polo conciario, le cui origini artigiane risalgono, probabilmente, al VI secolo d.C. (Giliberti, 2012). Tale polo è considerato distretto industriale, comprendente i comuni di Serino, Montoro Inferiore, Montoro Superiore e Solofra. E’ comunque innegabile che il grosso della produzione sia a Solofra. Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Distretti Italiani, al 2011 erano attive nel distretto 630 imprese, 526 dichiaranti l’attività di concia delle pelli e il resto coinvolte nella filiera produttiva tra confezionamento, prodotti chimici e  servizi. Nel distretto non operano le grandi imprese (quelle con più di 250 addetti, per intenderci) quanto piuttosto una costellazione di aziende di piccola e piccolissima dimensione per la lavorazione di pelli ovicaprine per abbigliamento, con elevate caratteristiche qualitative. Non parliamo, pertanto, di una cosa di poco conto, ma di una realtà che da secoli porta ricchezza nel circondario ed esporta l’Irpinia in Italia e nel mondo.

Noi irpini siamo spesso abituati a considerare Solofra come un nucleo industriale puzzolente, una galleria e un tratto autostradale tra Serino e la piana di Montoro. Abbiamo chiuso i finestrini e l’aerazione delle nostre auto, abbiamo esclamato “Che puzza” mimando il gesto delle mani a turare il naso, abbiamo sperato di arrivare il prima possibile sull'asfalto da aquaplaning di Montoro sperando di lasciarci il tanfo alle spalle. Andando verso Salerno, abbiamo visto quelle fabbriche floride del post-terremoto, quell’ammasso di pareti di cemento, vetro e ferro con tubi diretti in ogni dove, quelle sigle punteggiate ben in vista sulle facciate lungo le autostrade, quei colori sgargianti viola e giallo che in qualunque altro contesto se non in terra di nessuno come un nucleo industriale sarebbero state osteggiate dai piani colore dei Comuni e dall’opinione dei paesani. L'abbiamo sempre immaginata così, Solofra: quelle pelli ad asciugare, quei tir avanti e indietro per l’autostrada, quello svincolo autostradale stretto e pure un po’ pericoloso. D’altronde abbiamo sempre avuto pochi motivi per andare a Solofra: non ci siamo mai fermati a riflettere che vicino a quelle industrie si sviluppa un paese che, per povero o ricco che sia, ha piazze, scuole, giovani. E del tanfo, a dirvela tutta, non se ne sente neanche un po'.

Il nostro obiettivo, pertanto, è decostruire Solofra, contribuire con il nostro cent a ricrearne un altro immaginario geografico e spaziale, ripensarla in un’ottica che esuli dal distretto industriale, o meglio, da QUEL distretto industriale. Già, perché Solofra ha, appunto, anche un altro distretto industriale, sempre conciario, forse sempre puzzolente in passato, ma meno conosciuto: le vecchie concerie, antenate delle nuove, poco sopra il paese. Spazi@rendere si spinge alla scoperta di ciò che resta dei vecchi edifici, e l’occasione per visitarli è data dalla conoscenza intercorsa, negli ultimi anni, con alcuni gruppi e associazioni cittadine di Solofra, con le quali ormai vi è un rapporto duraturo di amicizia e condivisione. Purtroppo il tempo a disposizione è quello che è, e pertanto ci concediamo una visita in una mattinata post alcool con non troppe ore di sonno.

Dopo cornetto e cappuccino in un bel bar in una delle piazze del paese, ancora morti di sonno, e dopo un paio di telefonate, ci dirigiamo in località Toppolo e San Rocco (a questo link, http://www.solofrastorica.it/contoppolo1.htm, trovate molte altre interessantissime informazioni sulla vecchia industria della concia e sul rione Toppolo. Tanti contributi di indubbio valore per lo sviluppo della conoscenza non sono disponibile online, così resta al buon cuore di qualche appassionato riportarli in luce, egregiamente). Il paese di Solofra (lo si vede senza essere antropologi di professione o tuttologi di bassa lega come noi), è ricco. Forse lo è stato e ora non lo è più, d’altronde la variazione di addetti e numero di imprese ha generalmente valore negativo negli ultimi anni, ma comunque le piazze e le auto circolanti non sono quelle da Irpinia media, la cura dei look altrettanto. Chiamiamo il nostro amico fidato Enzo, che ci porterà in giro nel punto più alto del centro urbano di Solofra, in queste frazioni dove le concerie ormai abbandonate hanno avuto passato florido, frutto di lavoro certamente duro, usurante e pericoloso, e oggi sono mangiate dalle erbacce e dalla munnezza, quasi a disprezzo di quei sacrifici, tra sostante chimiche e pelli, perpetratisi uguali nel corso dei secoli. Camminiamo per le stradine circondate da queste vecchie strutture, dai lucchetti arrugginiti ai portoni di legno e dalle finestre rotte, lambendo un paio di aste fluviali piene di rovi e non ancora di acqua, in passato “serbatoi” per la produzione di energia e per la lavorazione delle pelli. Riusciamo ad entrare, abbastanza a fatica, in un paio di strutture. Enzo ha lavorato pelli più di dieci anni ed è bravissimo a spiegarci il funzionamento della produzione, dalle vasche nelle quali erano introdotte le pelli per la trattazione chimica con la calce (per questo delle anche caveceturi), ai macchinari per la lavorazione fino alla fase dell’asciugatura, nella quale le pelli venivano appese a stenditoi fatti di aste di legno dotate di gancetti in ferro. E’ davvero strano pensare come l’abbandono e il silenzio di quest’area facciano da contrasto alle piazze brulicanti di Solofra in pianura.

Nei dintorni ci sono varie case, nonché una piazza molto grande con una chiesa rimessa in sesto dopo il terremoto (così ci pare di ricordare). Come vedete nelle foto, spesso vicino o dentro queste concerie troviamo bidoni di plastica pieni di sostanze chimiche, immaginiamo tossiche, ed Enzo ci dice che sicuramente qualcuno viene a scaricare gli scarti di produzione e di lavorazione illegalmente, e che quei bidoni non sono “antichi”, tutt’altro. E la spazzatura è anche per strada, buste e vestiti tra i rovi sui cigli: ci sembra di essere in altri luoghi sporchi che abbiamo visto, fuori qualche campo rom o qualche estrema periferia campana e calabrese. La zona non ospita solo vecchie concerie; ce ne sono anche di più recenti, quelle da pochi addetti ancora funzionanti, così come altre molto più recenti che hanno purtroppo chiuso i battenti.

E’ quasi per caso che camminando ci troviamo a passare davanti la ex conceria di Enzo, chiusa da qualche anno ma nella quale si riesce a entrare - neanche Enzo ne era al corrente- passando attraverso una rete divisoria. Visitare la conceria con chi ci ha lavorato per anni e ti sa dire esattamente cosa c’era in quel punto, guidandoti metro per metro, spiegandoti tutto il processo, tutti i volti e i retroscena, anche abbastanza emozionato, non è cosa da poco. Al valore aggiunto della "guida" si somma quello di aver potuto effettuare un confronto nel giro di un’ora tra strutture e ambienti evoluti nei secoli: dalla struttura in mattoni alla struttura in ferro, vetro e pannelli, dalle vasche in pietra a quelle in ferro, dai macchinari antichi a quelli più recenti, dalla fase dell’asciugatura con stenditoi in legno a quelli in ferro. Gli ambienti sono enormi, i piani da visitare sono tre e la modernità della struttura ti fa sentire molto più presenti i volti di uomini e donne che vi hanno lavorato. Uomini, come ci diceva Enzo, che spesso avevano qualche lembo di dita mozzato, perché la fase del taglio era abbastanza pericolosa e il rischio di rimetterci le mani non era da poco. Le donne invece facevano lavori meno pericolosi e meno duri, intervenendo ad esempio nella fase dell’asciugatura, al piano più alto aperto sui lati sopravento per sfruttare la circolazione dell’aria. E la differenza tra le vecchie e le nuove fabbriche si nota anche da una struttura amministrativa ben definita, tanto che all’ultimo piano troviamo scaffali, sedie, fogli, scatoli, timbri della società, pitture di prova, tutto abbandonato, polveroso e buttato alla rinfusa.

La visita non finisce qui. Solofra è il feudo del Professore Raffaele Vignola, che sa della nostra sortita a Solofra quasi prima della nostra decisione finale di andare lì. Un paio di giri di telefonate e ci ritroviamo nella vecchia conceria di famiglia dei Giliberti, molto ben conservata nonostante qualche crepa di troppo. Il patron Felice ci descrive minuziosamente tutto il procedimento, con molta passione e precisione e anche un bel pizzico di malinconia. Ancora una volta le vasche, la lavorazione, l’asciugatura, ancora una volta raccontateci da chi vi ha lavorato, calcato le scene sin da piccolo. E il racconto acquisisce tutto altro sapore.

Spazi@rendere ha conosciuto un pezzo di archeologia industriale che meriterebbe maggior rispetto e approfondimento, perché una delle poche testimonianze di una produzione industriale che, qui più che in ogni altro luogo di Irpinia, è sempre stata radicata sul territorio dalla notte dei tempi. Trisavoli di quel distretto industriale, di quello stereotipo Solofra = Concia che va decostruito non perché falso, ma perché limitante e riduttivo ad una spazialità unica (il distretto attuale) invece di prospettive molteplici (il paese e le vecchie conce), che dipendono da questa equazione ma ad essa non sono uguali.    

Ringraziamo la famiglia Giliberti per la solita accoglienza, il Professore Vignola per la sua continua adulazione (non ci ha visto bene) e Enzo per il tempo speso con noi.

 

Giusto per:

Giliberti F., 2012, Antica Conceria 1860-1960, Solofra Oggi, Solofra. (se volete consultarlo fateci sapere, glielo chiediamo noi)

Osservatorio Nazionale Distretti Italiani, Distretto Conciario di Solofra, in http://www.osservatoriodistretti.org/node/116/distretto-conciario-di-solofra, ultimo accesso 19/10/2013.

Se volete capire qualcosa in più sullo sfruttamento del capitale sociale nel Distretto di Solofra provate a leggere Loda M., Relazioni verticali, capitale sociale e sviluppo locale: il distretto conciario di Solofra, in Sommella R., Viganoni L., (a cura di), 2003, SLOT quaderno 5. Territori e progetti nel Mezzogiorno. Casi di studio per lo sviluppo locale, Baskerville, Bologna, pp. 113-142.  

 

foto di Sandro Montefusco

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